PRIMO PREMIO: alunno Samuel Coletta
Istituto Comprensivo Sora 2 – Scuola secondaria di primo grado “Riccardo Gulia” – Classe IIIC
Docente referente: prof. ssa Ranaldi Patrizia
Capita spesso di guardarmi intorno, dentro e fuori casa, e di trovare oggetti vari, opere d’arte, foto sbiadite o in bianco e nero di esperienze passate, e mi sento così, d’un tratto, travolto dai ricordi, dalla gioia e dalla nostalgia di un passato conosciuto o raccontatomi da altri, ma che sento comunque mio. Ed è bello fermarmi un attimo a contemplarli, ad osservare attentamente ogni loro minimo particolare che possa permettermi di riavvolgere la “pellicola” del tempo e catapultarmi indietro nel passato, in una dimensione intima e profonda, fatta di emozioni e di ricordi. Sì, proprio così! Perché le emozioni ed i ricordi si attivano dagli occhi, passano dalla pancia e salgono fino al cuore, si concretizzano in una lacrima o ci strappano un sorriso; ci fanno compagnia e ci permettono di provare appieno la bellezza della vita. Proprio l’altro giorno, mentre giocavo in cameretta di mio fratello, il mio sguardo si è soffermato sulla riproduzione del “Castello di San Casto” di Sora. Un lavoro da lui realizzato in quinta elementare, nell’ambito di un progetto scolastico, e che mi ha fatto tornare alla mente la storia, la bellezza, la pace e la straordinarietà di questo posto. È trascorso diverso tempo da quando sono salito fin lassù, insieme alla mia famiglia ma ricordo bene che è stata un’esperienza bellissima e originale da condividere con loro, che sono le persone più importanti della mia vita. Ricordo che mi feci fare un breve excursus storico di quella gita insieme per comprendere meglio le origini e la storia di ciò che stavamo per visitare. Tale arduo compito toccò al “Cicerone” della casa, ovvero mio fratello. Appresi, così, che Sora era sorta come presidio dei Volsci, i quali costruirono una cinta muraria difensiva intorno al Monte San Casto. Venne, poi, conquistata daiSanniti diventando una colonia romana. I romani sfruttarono le costruzioni precedenti per erigere una prima fortezza, distrutta nel XIII secolo dalle truppe di Federico II, durante la battaglia contro lo Stato Pontificio. In seguito, lo stesso Federico II edificò una nuova rocca sulle rovine della precedente che fece parte di una linea difensiva insieme adun ampio numero di fortificazioni e assunse, così, un ruolo fondamentale per la difesa dei confini del Regno di Napoli.Nel XV secolo, Alessandro Borgia, figlio di Papa Alessandro VI alias Alessandro Borgia, si interessò all’area di Soraper riconquistarla a favore dello Stato della Chiesa. Il Castello di San Casto, come lo si vede oggi, è frutto di una totale ristrutturazione del 1520, che voleva adattarlo alle nuove esigenze belliche e renderlo una fortezza inespugnabile.Osservando con attenzione quel modellino, ho sentito riaffiorare, nella mia mente, le immagini di quel giorno di primavera inoltrata, il tepore del sole che ci ha accompagnato con la sua splendida lucentezza, la voglia e l’entusiasmo di salire i circa 400 scalini per arrivare sulla sommità del Monte San Casto che lo ospita, a 500 metri di altitudine. Il tragitto, sotto quel caldo, ci è sembrato piuttosto lungo e faticoso. Ci fermavamo spesso per riprendere fiato e, per fortuna, alcune attrazioni, lungo il sentiero, ci hanno aiutato a non pensare alla fatica dell’impresa. Arrivati in cima al monte, esausti ma orgogliosi al contempo, ho notato come le enormi mura ed i torrioni si stagliavano tra la vegetazione, seguendo quasi per intero la lunghezza della vetta. E, finalmente, dopo un respiro profondo e rigenerante, ci siamo accinti ad entrare “trionfalmente”, come per chi ha vinto una battaglia, nel prato di forma rettangolare, contornato da bastioni cinquecenteschi. Da quel cortile dotato di una cisterna, completamente spoglio e invaso da erba, si riusciva a percepire un primo assaggio del fulcro abitativo del maestoso maniero, sul quale si può salire tramite le buie e scivolose scale a chiocciola delle torrette laterali. Al suo interno, oltre al vasto prato cinquecentesco, nella parte più antica, ho potuto ammirare il grande mastio per l’avvistamento e una Cappella votiva dedicata ai Santi Casto e Cassio, che conserva, ancora, alcune tracce di affreschi. Nel frattempo, arrivata l’ora del pranzo a sacco, abbiamo dispiegato un telo per terra e, lì seduti sull’erba, circondati dalla natura, dall’aria fresca e dalla sicurezza trasmessaci da quel puro e semplice complesso architettonico, così come aveva fatto un tempo, ci rifocillammo un pò. Ricordo che la magnificenza del Castello di San Casto mi aveva stupito ed affascinato, anche per la sua particolare posizione geografica che rende possibile la vista di un panorama fantastico che spazia, infatti, su Sora e sui paesi limitrofi, sovrastati, a loro volta, dai severi monti appenninici. Terminata la pausa pranzo, è stato bello sdraiarsi su quel mantello verde ad ammirare tutta quella naturale e gratuita bellezza e l’azzurro del cielo infinito, sorvolato da un innocuo e indifeso apprendista falchetto, intento a planare come fosse un aereo dalle ali spiegate. Anche quel piccolo esserino, sapeva di libertà riconquistata, di voglia di vivere, di consapevolezza acquisita. Poi, ricordo, abbiamo deciso di proseguire la visita, immergendoci nelle oscure profondità del castello. Eravamo completamente a contatto col suo cuore pulsante, la pietra umida ci circondava e ci dava un senso di protezione. Doveva essere così che i signori si sentivano ogni volta che camminavano nelle sale e nei corridoi della struttura. Infatti, ci è sembrato di tornare indietro di 500 anni! Ci aspettavamo di ritrovarci a percorrere quelle scalinate a lume di una torcia, con la sola compagnia dei ragni e delle ombre e, per comunicare, sembrava più rispettoso parlare a bassa voce o addirittura bisbigliare, proprio per non turbare il silenzio e la pace dei piccoli ospiti della natura e di quelli angusti e limitati spazi. E così, come per magia, è entrata in ballo la mia immaginazione. Una volta tornati alla luce del sole, la valle si è schiusa di fronte a noi in tutta la sua ampiezza, lasciandoci scorgere in lontananza una nuvola di fumo sollevata dalle cariche dei cavalli di battaglia. Percepivo quasi lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli in corsa e lo sguardo minaccioso e deciso dei cavalieri che li galoppavano con prontezza di riflessi. Di contro, da quella posizione, nulla poteva sfuggire agli occhi vigili delle sentinelle di vedetta!Un altro aspetto che mi ha interessato e incuriosito molto del Castello è stato l’intravedere la presenza di una rete di sotterranei che si dirama al di sotto di esso e che, addirittura, lo collegherebbero alla pianura. L’immaginazione è tornata quindi a farla da padrona e mi ha portato di nuovo a spaziare con la fantasia e a esplorare minuziosamente quei cunicoli, sognando di ritrovare resti di armature, armi ed utensili di ogni genere. E mi sono ricordato così delle storie raccontatemi dal nonno sul periodo della guerra, quando cercava di difendersi a tutti i costi, nascondendosi nei posti più impensabili, pur di scampare agli attacchi del nemico, alle bombe lanciate dagli aerei e ai colpi di fucile…quando un semplice pezzo di pane e un pasto caldo erano conforto al freddo, allo smarrimento, al timore…quando un abbraccio di un caro, una carezza, un sorriso, una lettera scritta con amore, avevano il senso autentico delle cose vere, vive, vissute ad ogni costo…Ho provato, per un attimo, il dolore, la paura di quei momenti e la desolazione nel vedere le macerie lasciate dopo gli attacchi.. Paure che, purtroppo, si vivono anche oggi, non troppo lontano da noi, in Paesi dilaniati da guerre assurde, ma che hanno alla base sempre le stesse motivazioni: interessi economici, interessi territoriali, smania di potere, voglia assurda di comandare su tutto e su tutti, senza mettere in conto che a pagarne le conseguenze sono sempre gli stessi, i più deboli, i più indifesi, coloro che cercano semplicemente di godere delle libertà e dei diritti acquisiti con il tempo. Ma poi ho ripensato all’aspetto più bello e fraterno di quel luogo e mi è tornato alla mente il secondo nome associato a quel castello, ovvero “Rocca Sorella”, un nome che ho trovato rassicurante, amorevole, protettivo proprio come le braccia di una sorella o di un fratello quando vuole coccolarti per dimostrarti il suo affetto o per starti vicino in un momento difficile. E forse l’intento di quel luogo era anche quello, confortare chi in esso trovava rifugio e protezione. Allora ho pensato che, se quello stesso luogo, punta di diamante della città di Sora, venisse valorizzato, rivalutato al massimo come un posto “speciale”, non sarebbe male. Dovrebbe essere visitato più spesso da comitive, per far sì che quella stessa percezione da me avuta diventasse una sorta di “fame di sapere” collettiva, perché, anche se le ere cambiano e cambiano le priorità, la cultura deve essere sempre preservata da dimenticanze di qualsiasi genere, proprio per farci continuare ad apprendere da ciò che ci circonda. In questo lungo flash back di riflessioni, la mia attenzione è tornata di nuovo a quel piccolo lavoro artigianale, che tanto era riuscito a suscitare in me, oltre alla profonda ammirazione per ciò che rappresentava. Non nego che quel prototipo di castello, in un momento di tranquillità e riposo da impegni vari, aveva concretizzato in me dei ricordi e delle emozioni uniche, felici e tristi al contempo. Felici, perché mi hanno regalato di nuovo la spensieratezza e la gioia di quella giornata con i miei cari; tristi, perché hanno riportato alla mente le vicissitudini subite da coloro che hanno vissuto, in prima persona, il drammatico periodo della guerra e di chi la sta vivendo ancora oggi. Ma è giusto che sia così, perché significa non rinnegare il passato, il suo valore, la sua autenticità, nel bene e nel male. Il non valorizzare quello che “è stato” significa distruggere la propria identità, non farne tesoro per affrontare le difficoltà e per godere dei piaceri che la vita ancora ha da regalarci. Oggi possiamo avere tutto, ma se non siamo capaci di emozionarci davanti a ciò che fa parte del nostro vissuto, vorrà dire che non siamo capaci di abbandonarci ai nostri sogni e alle nostre speranze. Vorrà dire che siamo “soggetti stereotipati” e che abbiamo perso il senso più profondo della vita, cioè quello di viverla appieno per farne il nostro più bel progetto che potrebbe essere, un giorno, da esempio per qualcun altro.
Samuel Coletta
Classe IIIC