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“La Casa Gialla” è un vero tempio del Postimpressionismo. Il candido marmo che avvolge le pareti del museo, su cui si inseriscono le opere dei maggiori artisti del periodo, crea un’atmosfera languida e seducente in cui si può rischiare di rimanere “ingabbiati” per sempre. Non mi credete? Dovreste provare questa esperienza allora. Mi rendo ben conto di quanto debba essere difficile raggiungere questo museo ad Arles, in un momento storico in cui la pandemia ci tiene relegati nelle nostre abitazioni. Ma del resto, come Gauguin ha affermato, “l’arte è astrazione”. Allora miei cari lettori, mettetevi comodi, allacciate le cinture e gustatevi questo fantastico viaggio con la fantasia guidato da me.
Immaginate una giornata calda, le rive della Senna e circa quaranta persone che sembrano manichini. Non ci siete riusciti? Allora guardate questo dipinto.
Il titolo originale dell’opera è “Una domenica pomeriggio all’isola della Grande-Jatte”.
Fa un po’ ridere questo dipinto bizzarro, vero? Non siete gli unici a trovarla divertente. L’opera fu esposta all’ultima mostra impressionista del 1886, ma fu oggetto di battute salaci. Il motivo? Sicuramente la donna con la scimmietta al guinzaglio.
Seurat cominciò a lavorare a questo dipinto nel 1884, terminandolo circa un anno più tardi. Tuttavia, l’artista ritornò sui suoi passi e coprì lo strato originario dei colori con la sua tecnica fatta di piccoli puntini.
Il dipinto è di dimensioni eccezionali rispetto a quelle utilizzate dagli Impressionisti ed il soggetto è il passeggio domenicale lungo un isolotto della Senna, la Grande Jatte.

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Autori impressionisti come Monet e Renoir avevano dipinto già il medesimo luogo, ma la spontaneità delle loro opere non ha nulla a che vedere con il rigore e la razionalità di questa scena. Le figure sono collocate a coppie, in gruppi da tre o da sole, prevalentemente disposte di spalle o di profilo, distese orizzontalmente o sedute ad angolo retto. Più che persone reali sembrano dei manichini inseriti in una disposizione sacrale che ricorda le figure egiziane. Questa sacralità è contraddetta da una vena ironica che allude ad una civiltà eccessivamente formale: nella società di massa, tutti sono imprigionati nei medesimi abiti rigidi e, anche nel tempo libero, non perdono di vista la loro razionalità. L’intera composizione è il risultato di un assemblamento delle singole parti: tutto il dipinto fu meticolosamente realizzato in atelier, anche se l’artista non rinunciò a bozzetti e schizzi preparatori en plein air. Seurat si era particolarmente dedicato alla cura dell’armonia geometrica tra le linee verticali, oblique e le curve create dagli ombrelli e dai cappelli. Enfatica e raffinata è la donna con la scimmietta al guinzaglio, tratta da una caricatura dei giornali satirici.
Il centro è occupato dalle uniche due figure che procedono verso lo spettatore: lo sguardo della bambina è l’unico di tutto il quadro rivolto verso chi guarda l’opera, come a voler testimoniare una mediazione tra il mondo possibile e quello reale.
La stranezza del dipinto non cela alcun significato simbolico o sociologico. L’artista ha voluto rappresentare esclusivamente il suo rinnovamento artistico: piccoli puntini di colore vibrante trascrivono la scomposizione fisica della luce e la sua ricomposizione nella retina dell’osservatore.
Se Seurat aveva cercato di superare l’Impressionismo attraverso la scienza, Gauguin intraprese una strada del tutto opposta. Del resto, anche le loro personalità erano agli antipodi: Seurat borghese, con regolari studi accademici, scarsamente incline all’avventura e affascinato dalla logica; Gauguin educato alla libertà più completa, autodidatta e impulsivo.
“Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?” sono domande che tutti noi ci siamo posti almeno una volta nella vita. Gauguin indubbiamente era un genio dell’arte ma lui, come tutti noi, ha sperimentato di persona il fallimento e il dolore. È proprio il suo insuccesso che lo ha reso Grande e con i suoi dubbi ha realizzato una tela enorme.

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Più che un quadro, sembra che l’artista abbia voluto dipingere una dissertazione filosofica: l’inesausto viaggiatore, fautore di un’arte che concilia l’esotismo orientale e la tradizione stilistica occidentale, cercò vanamente per tutta la vita una risposta a questi grandi interrogativi. La lunga stesura del dipinto “Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?” interessò una fase particolarmente delicata della vita dell’artista: a Tahiti aveva tentato il suicidio dopo la morte della sua figlia prediletta. Gauguin si interroga sulle radici dell’esistenza umana e lo fa con un quadro che raccoglie tutti gli spunti della sua pittura in Oceania, in cui le diverse figure sono giustapposte all’interno della scena, come in un collage. Questo murales sul ciclo della vita, dalla nascita alla morte, è ambientato in un “paradiso immaginario”, in un tempo incantato. L’autore dichiara futile ogni tentativo di risposta a questi grandi dubbi: infatti, la coppia che dialoga sullo sfondo testimonia l’inutilità delle congetture filosofiche elaborate per cercare di dare un senso all’esistenza umana; la figura della dea a sinistra allude alla falsità delle credenze religiose e il bambino addormentato a destra volge lo sguardo verso la sua inesistenza, circondato da tre figure femminili che infondono un senso di protezione solo apparente.
In questo Eden selvaggio in cui l’uomo sembra essere condannato a vivere piuttosto che a venirne cacciato, ciascun personaggio è colto in un atteggiamento meditativo. In questa ultima fase della sua vita, i colori felici e vivaci che avevano caratterizzato opere come “Il Cristo giallo” sono stati sostituiti da tonalità fredde e notturne, su cui risaltano i corpi nudi.
A sinistra e a destra, nei bordi superiori del dipinto, compaiono due lembi dorati come se la scena fosse scoperta da un sipario: il lembo di destra contiene la firma dell’artista, mentre quello di sinistra il titolo dell’opera in francese.
In un mondo in cui “l’arte è astrazione”, l’artista deve sognare di fronte alla natura ed utilizzare il colore per rappresentare il proprio mondo interiore. Nessun artista come Van Gogh ha saputo interpretare in maniera così realistica il disagio interiore dell’uomo. Il genio incompreso e sofferente aveva coltivato, durante la sua vita, il desiderio di una pittura con effetti di luce notturna. Ne derivarono tre scene, diverse per taglio e stesura, unite da una geografia sentimentale di straordinaria efficacia. Nel 1889, Van Gogh dipinse la sua ultima notte stellata mentre si trovava in un istituto di cura per alienati in Provenza. In questo olio su tela, tre componenti di un paesaggio notturno dialogano tra loro: un paese quasi del tutto addormentato, un cipresso nero e un cielo stellato. Diversamente dalle prime due scene notturne, pochissimi sono gli elementi immobili e statici del dipinto: i piani delle colline sono dipinti come delle cascate d’acqua, il cipresso sembra agitato dal vento e il cielo notturno travolto da un vortice che disegna nel cielo girandole su cui roteano gli astri. Mentre il villaggio dorme, è come se nella mente del pittore si fosse scatenata una battaglia tra la bellezza della natura e le sensazioni che l’artista prova: il paesaggio diviene lo specchio delle potenti emozioni di Van Gogh. Dopo le opere quasi monocromatiche del primo periodo realista, nella notte inquieta emerge una tavolozza più chiara e vivace, in cui si scontrano i colori complementari giallo e blu. Le pennellate energiche, sinuose, concentriche, a tratti, a onde riflettono lo stato psichico di un io scisso e frammentato, alla perenne ricerca di sé stesso: l’artista non percepisce più l’energia del cosmo come qualcosa che è in o grado di dominare, ma piuttosto come un vortice che lo annienta.

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Cari lettori, spero vivamente di avervi incuriosito. Promettetemi che non appena tutto finirà, tornerete a viaggiare, a scoprire il mondo e tutti i suoi angoli più nascosti perché l’arte, nelle sue forme più diverse, è vita.

Chiara Zuppetti, 5A

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