Che rapporto c’è tra la sua scrittura e la Calabria, la terra dove è nato?
C’è un legame fortissimo. Sono convinto che nessuno possa vivere in pace senza prima aver fatto pace con i luoghi da cui proviene, e io avevo lasciato Africo, il mio paese, come atto di rifiuto verso tutto il mio passato: il mio destino di pastore, da figlio di pastori, i mali della mia terra, la ‘Ndrangheta, la cattiva fama che ci opprimeva e ci opprime ingiustamente. Mi sono laureato a Bologna in giurisprudenza e, per un po’, ho esercitato la professione a Milano. Poi, un giorno, sono salito in macchina e ho percorso i chilometri che mi separavano dai miei luoghi natali: volevo rivederli, riconciliarmi con loro, con l’Aspromonte che mi aveva cresciuto. Dopo quel viaggio, ho iniziato a scrivere. Non avevo grandi pretese, ho iniziato quasi per caso, ma ho scritto cinquanta pagine in un giorno. Il secondo giorno, ne ho scritte altre cinquanta. Così è nato il mio primo libro.
Mi sono finalmente riconciliato con la mia terra, raccontandola. La calabria ha avuto molti grandi intellettuali, in passato, ma, negli ultimi tempi, nessun calabrese si è fatto carico della necessità di raccontare. Solo un giornalista e deputato di Cremona ha scritto della Calabria, delle sue contraddizioni e del suo spirito, ed è stato colui che ha definito gli africoti “riottosi, ribelli e irriducibili”: un marchio che ancora ci portiamo addosso.
Perché ha deciso di parlare di un tema delicato come la mafia?
Io non sono uno scrittore di mafia. So che può sembrare strano, ma preferisco definirmi sempre uno scrittore di romanzi rosa: in fondo, parlo sempre d’amore, che sia per una donna, per una mamma, per una terra. La Calabria è una terra violentata da un Occidente che vi è entrato con prepotenza, scontrandosi con una cultura che risale all’antica Grecia. Le popolazioni dell’Aspromonte si sono viste strappate dalla montagna che le accudiva, evacuate con la scusa di alluvioni mai avvenute e trasferite in massa sulla costa, occidentalizzate a forza da uno Stato che si è servito dei potentati locali, di cui la ‘Ndrangheta era il braccio armato, per mantenere il controllo di cui era avido, e così facendo ha risvegliato il mostro che ha cambiato la faccia del mondo intero. La cultura dei popoli dell’Aspromonte, popoli della Locride costretti a riconoscersi in provincie a cui non appartengono, è fondamentalmente di pace. La ‘Ndrangheta è un male nato dallo scontro di culture, dalla violenza dell’Occidente conquistatore e imperialista.
Nei suoi libri, le donne hanno sempre un ruolo importante, quello di segrete costruttrici della pace. Perché?
Perché la guerra nasce dall’istinto del maschio. La donna è pace, il principio femminile è vita e la guerra distrugge la vita. Un tempo, l’Aspromonte era governato da questo principio femminile. Locri, si racconta, fu fondata da un gruppo di donne greche che, stanche delle continue guerre dei mariti, presero con sé i figli e si rifugiarono sulla montagna. L’Aspromonte è femmina e madre: madre amorevole, non asper, “aspro” (la nostra lingua non è il latino!), ma asprakos, “luminoso”, e infatti fino a poco tempo fa era illuminato dal riflesso delle nevi perenni. La madre Aspromonte, fecondata dai semi di vita del deserto portati dal Libeccio, che si chiama anche Africo, dà la vita e, tramite non i fiumi ma le fiumare (femminile!), la diffonde nelle valli fino al mare. La società aspromontana era fortemente matriarcale, fino alla conquista da parte della mentalità occidentale.
In La maligredi ha parlato della necessità di restare nella propria terra per migliorarla, rinunciando a scappare. Cosa pensa del fenomeno della “fuga dei cervelli”?
Nessuno può costringere un giovane con ampie prospettive, che vuole cercare altrove la propria realizzazione, a restare. In Calabria, questo è un problema particolarmente sentito: non è un mistero che la mia regione d’origine ha seri problemi di disoccupazione giovanile. Del resto, per anni è stata come una stazione ferroviaria, un luogo di passaggio di cui nessuno si cura davvero. Un vero peccato che il nostro Stato voglia trattare mezza nazione come una stazione ferroviaria. Per questo, capisco il desiderio di fuga dei giovani. Ma io, che sono un emigrato dalla mia Calabria, so bene cosa significa scoprire in ritardo che, forse, quello che credevamo di volere non è quello che volevamo. Spesso si fanno scelte avventate dettate da luoghi comuni. Io volevo essere “laureato”, volevo avere questo status che mi sembrava immenso, ma oggi, potendo scegliere, farei il pastore. Se non si può fare a meno di emigrare, ben venga, ma bisogna pensare bene a ciò che davvero si desidera.
Nella sua narrativa c’è qualcosa di magico-fantastico che ricorda straordinariamente Màrquez. C’è anche lui tra le sue ispirazioni?
No. La coincidenza è curiosa, ma il mio modo di narrare è figlio della mia cultura. Più che a Màrquez, mi ispiro a mio nonno. Quando ero piccolo, con la scusa di farmi assaggiare la sua cioccolata, mi portava in campagna con lui e mi raccontava storie, storie dal sapore storico e magico che in effetti possono ricordare lo stile di Màrquez, ma sono figlie della Calabria. In camera mia, per inciso, non ho mai avuto poster alla parete, solo una foto di mio nonno. All’inizio lo seguivo e ascoltavo le sue storie per la cioccolata, poi ho cominciato ad interessarmi a ciò che raccontava.
A proposito di storie, gran parte di quello che sono lo devo alle mie letture giovanili, iniziate per puro caso. Nel mio paese c’era una biblioteca comunale, da sempre ignorata, che, un giorno, decisero di riaprire, affidandola alle cure di una bibliotecaria che, a onor del vero, era una gran bella ragazza. I giovani del paese, casualmente, divennero tutti assidui frequentatori della biblioteca (me compreso), solo che io finii per interessarmi anche alla lettura. La ragazza, che sapeva riconoscere chi veniva da lei (anche) per leggere e chi voleva solo farle la corte, mi prestava spesso pile e pile di libri.
Forse, tra quei libri, ci sarà stato anche Cent’anni di solitudine, chissà, e mi è rimasto impresso in qualche modo lo stile. Sinceramente, non mi ricordo.
Da Anime nere è stato tratto un film di grande successo. Di solito, vedere uno dei propri libri trasformato in film è un’esperienza “particolare”, per uno scrittore: affrontare rimaneggiamenti della storia, stesura della sceneggiatura, tagli, aggiunte… Lei come lo ha vissuto?
Il libro lo pubblicai per la prima volta con un editore, Rubettino, che in realtà era specializzato in saggistica, e non ci aspettavamo che qualcuno comprasse i diritti per il film. Il mio editore, quando lo venne a sapere, mi chiese solo: “Questa cosa la gestisci tu?”. Partimmo per Milano un po’ come Totò e Peppino, ritrovandoci dal nulla a girare circoli impensabili: chi aveva lavorato con De Niro, chi voleva il film girato da Ridley Scott…
Il regista che trovammo, alla fine, era poco conosciuto, ma riuscì a produrre un film straordinario. Per girarlo, però, dovetti portarlo in Aspromonte.
Arrivò alle quattro di mattina, accolto da me e da un gruppo di miei amici del posto, facce aspromontane e vestiti neri, e il mio primo pensiero fu “Vedi che adesso scappa”. Invece, stranamente, non scappò.
Restammo in Calabria a creare il film per tantissimo tempo, parlando con la gente del posto che ha messo insieme la trama, pezzo per pezzo. Non credo esista unaltro film con un intero popolo come sceneggiatore. Ci mettemmo tanto tempo anche perché, ovviamente, non avevamo una lira. Millantando produzioni milionarie, arrivammo a fare debiti assurdi.
Per rispondere alla domanda, alla fine, sì, mi riconosco perfettamente nel film, perché l’ho sceneggiato attivamente io, anche se non era possibile fare un film del genere se non insieme a un intero territorio.
Davide Ferri