SECONDO PREMIO
Alunno: Alessandro Sisti
Istituto Comprensivo Sora 1-Scuola secondaria di I grado G. Rosati -Classe: III A
Docente referente: Daniela Tersigni
”Buongiorno Antò, anche oggi è una giornata afosa!” Dissi dirigendomi verso la bottega; Antonio, il ramaio di Cancheglie, con la solita calma stava aprendo il portone di legno del suo negozio. “Buongiorno Gnore Cé “ rispose girandosi di scatto. ”Anche oggi a lavoro?” chiesi. ”No “rispose lui con un mezzo sorriso “Oggi è festa, la grande festa “ disse accendendosi un sigaro. “Posa chiss cose “lo ammonii arrabbiato. Ma lui continuò a fumare.” E che m’può fa n’ sigaro?” rispose ostinatamente. Antonio aveva poco più di sessant’anni, era piccolo ed esile di corporatura, non era sposato; era un uomo solo e solitario. I suoi capelli argentati come le nubi prima di una pioggia torrenziale spiccavano sul viso magro e rugoso. Gli occhi verdi somigliavano al colore dell’acqua del Liri, che sembrava specchiarsi nei giorni trascorsi sulla riviera seduto a battere il rame e a dare forma a piccole opere d’arte. La sua vita era tutta in quella piccola bottega affacciata sul fiume vicino alla Porta di Cancheglie. “Sono venuto a prende na schiamarola per la commar Tutina e poi voglio vedere la processione”. Rispose aprendo l‘anta del portone ed entrando. Entrai anche io nella piccola bottega, tutto era in ordine: le conche e le pentole lucidate e pulite erano appoggiate su una mensola in alto. Più in basso c’erano gl’cuttur di diverse misure. Sull’altro lato, appesi al muro, mestoli, schiumarole, forchettoni, tutti ordinati per grandezza; e poi piatti e tegami disposti con una precisione sorprendente. In basso, per terra, la solita confusione della bottega di Antonio: gli oggetti da riparare messi uno dentro l’altro tra la forgia e il cavallo; i dischi di rame sparsi qua e là tra i martelli e gli altri arnesi. Antonio uscì dalla bottega con una sedia in mano “Antò, ma che sta a fa?” chiesi. Lui, quasi come stesse aspettando questa domanda, mi rispose” M’voglio vede la processione dalla mia bottega” Anche se con molta fatica, trascinò la sedia fuori e la mise in linea con il portone. Stranamente Antonio non ci si sedette, ma continuò a cercare qualcosa nel piccolo negozio. Uscì con un’altra sedia e con un grande sorriso mi disse ”Perché non ci vediamo la processione insieme, gnore Cé?” Posò il suo sigaro su quella piccola sedia vecchia in legno e mi disse “Cesare, ti ricordi sta processione, quando eravamo du creature? Che bei tempi” Riprese il sigaro acceso e riprese a fumare. Per lui la processione non era solo una festa durante la quale ringraziare con devozione i santi, era un modo per ritornare bambino, per rivivere le emozioni della sua fanciullezza. Non credevo che una festa, che per me ormai non aveva un valore, visto che non vi partecipavo da venti anni circa, potesse essere per lui così importante. Ricordo ancora il milleottocento cinquantasei, quando l’Italia fu decimata dall’epidemia di colera che a Sora, fortunatamente, non arrivò. Per questo miracolo, i Sorani organizzarono il martedì di Pentecoste una grande processione per ringraziare tutti i santi. Io, allora studente in medicina, mi precipitai da Roma per parteciparvi e così per tutti gli anni della mia gioventù. Nell’età adulta i miei impegni di medico mi allontanarono da Sora; oggi, ormai anziano, il destino mi aveva riportato a vivere l’esperienza della processione insieme ad un vecchio compagno di avventure, Antonio. Quindi decisi di sedermi e di aspettare con lui la processione. Mentre parlavamo, iniziarono a passare i primi santi. Per me alcuni erano volti sconosciuti o dimenticati. Chiesi ad Antonio” Ma chi sono i primi due?” Lui mi rispose scrutandoli attentamente ”Il primo è il beato Francesco Bianchi e quello al suo fianco è il beato Vincenzo Strambi: come per le persone, anche per i santi si mandano davanti quelli meno importanti”. La sua ironia nascondeva una verità, infatti le statue dei due beati erano seguite da pochissimi fedeli e passavano tra il disinteresse generale. Di seguito c’erano altre tre statue. Tra i Santi si era intrufolata anche la statua dell’Angelo custode; Antonio mi indicò la statua di San Benedetto Giuseppe Labré, mentre faceva una genuflessione. La statua veniva portata dignitosamente dai ragazzi di Cittadella ed era accompagnata dal suo unico devoto Cazzitte, che si riconosceva perché oggi era pulito e compiaciuto ma soprattutto era scalzo come sempre: questo era il santo dei poveri e la sua statua proveniva dalla chiesa del Cimitero. ”Ancora devono partire da Santa Restituta le ultime statue” disse un ragazzo che passava portando lo stendardo della Chiesa di Santa Maria degli Angeli e precedendo la statua di San Felice Cantalicio. Antonio l’osservò e disse affascinato “Una processione così ce l’abbiamo solo a Sora. Facciamo venire tutti i santi anche dalle chiese della campagna.” Mentre lui parlava, la memoria mi portava indietro nel tempo, quando da ragazzo, il lunedì di Pentecoste, andavamo in piazza Santa Restituta ad osservare l’arrivo delle statue che si sarebbero fermate lì, attendendo la processione del giorno dopo. Ricordo l’emozione di vedere tutte quelle figure enormi alla luce rossastra del tramonto di inizio estate, la fierezza degli sguardi dei parroci delle chiese di campagna nel venire nella chiesa più bella di Sora. Poi, con gli altri ragazzi, proseguivamo il giro nei monasteri cittadini a vedere le altre statue: Santo Spirito e San Francesco, Santa Chiara e San Pietro celestino. Assorto in questi ricordi, quasi non mi accorgevo del passaggio di San Casto e di San Gaetano da Thiene. Per ironia della sorte la statua, proveniente dal monte che sovrasta Sora, rincorreva in processione il santo che dà il nome al monte stesso. Passarono poi San Francesco Saverio e San Giuda Taddeo, Sant’Andrea Avellino proveniente dalla chiesa di San Bartolomeo, San Luigi Gonzaga dalla Madonna delle Grazie, San Espedito martire e San Giacomo Apostolo. Ad ogni santo, Antonio accennava un segno di croce. Poi osservava compiaciuto le persone al seguito delle statue: c’erano i canonici con le vesti della festività, i priori e i membri delle congregazioni, ognuno con il proprio saio di appartenenza. E poi c’erano i fedeli: quelli venuti dalle chiese contadine seguivano numerosi i propri Santi; i “cittadini devoti” seguivano il santo a cui avevano fatto voto, mentre gli altri decidevano di anno in anno a quale statua accompagnarsi. Stando lì fermo con Antonio, mi accorsi che tutta la città stava sfilando davanti a noi. Osservai gli sguardi della gente rivolti al vecchio ramaio: tutti sorridevano, qualcuno accennava un saluto con la mano e altri, più sfacciati, salutavano ad alta voce, subito ripresi dagli sguardi severi dei fedeli più coinvolti. La processione proseguiva lenta: arrivò il turno di Santa Liberata. Chiesi ad Antonio. “Anche tu andavi al santuario di Bauco al ritorno dal pellegrinaggio da Canneto per venerare Santa Liberata?”, annuì e capii dal movimento delle labbra che non poteva rispondermi perché stava pregando. Così mi concentrai a vedere il passaggio di altre due statue femminili: Santa Eurosia e Santa Terenzia. La Prima veniva da lontano, dalla Chiesa di Santa Maria Porta Coeli ai confini di San Domenico e la Selva: viene invocata come protettrice dei contadini e dei raccolti minacciati dalla grandine e dai temporali estivi e forse, nell’imminenza della mietitura, la santa era seguita da molti fedeli. Santa Terenzia, invece, veniva dal monastero femminile ed era preceduta dalla lunga fila delle suore della Carità con le braccia conserte sotto la tonaca, ma dietro di lei non c’era nessun fedele. Poi passarono San’Antimo Vescovo e San Sosio Martire: le due statue venivano da fuori Sora e la sera venivano ricoverate nella Chiesa di San Pietro Celestino. Guardandole pensai allo stato di abbandono e di degrado in cui avevo ritrovato la piccola chiesetta annessa al monastero dedicato al santo papa esiliato e morto a Fumone. Passarono uno dietro l’altro San Bernardo abate, San Leonardo da Porto Maurizio, Santa Barbara, San Michele Arcangelo, San Gerardo Maiella e San Pasquale Baylon. All’avvicinarsi della statua di Santa Rosalia, Antonio mi disse: “Cesare, ecco la Santa che ha fatto il miracolo a Francesco Castellucci”. “Già – risposi io- e lui per ringraziarla ha acquistato questa bellissima statua. Scusami Antonio, ma c’è sempre così tanta gente nella processione di settembre che dalla chiesetta arriva fino al centro?”. “Tantissima – rispose Antonio – perché ognuno pensa che se ha fatto un miracolo a Castellucci, può farne ancora. Io invece preferisco quel sant’uomo di San Vito che sta sempre nella stessa chiesa e che più di una volta mi ha protetto dalle punture velenose e dai morsi dei cani randagi”. E passò anche San Vito. Arrivò la statua di Santa Lucia seguita da tantissima gente che la invocava per ottenere la vista. Anche Antonio fece un profondo inchino e farfugliò qualcosa. Dopo Sant’Anna e San Gerardo Confessore che avevano pochi seguaci, molta gente osannava ed invocava i due grandi santi protettori della salute: San Donato e San Biagio. “Questi fanno concorrenza a te che sei dottore” mi disse con tono scherzoso Antonio. Io non raccolsi la provocazione, ma pensai che tanta fede e convinzione a volte sono più efficaci delle medicine. Preannunciato dal tintinnio del campanello che teneva in mano e seduto sul suo seggiolone passò, molto atteso, sant’Antonio Abate con la sua barba bianca. Poi la lunga fila dei Padri Passionisti con il cero in mano anticipava l’arrivo di San Diodato e di San Paolo della Croce. Quindi, veneratissimo, passò la statua di San Ciro. Nella crescente commozione, arrivò San Giovanni Battista di cui, tra qualche giorno, avremmo festeggiato proprio qui sul Liri la magnifica festa con il l’accensione del favone. Poi arrivarono San Giuseppe e San Francesco d’Assisi: Antonio mi guardò e mi chiese con tono serio “Gnore Ce’, tu che hai studiato e viaggiato, cosa pensi che porterà questo nuovo secolo che abbiamo appena iniziato? Sai, io sono già vecchio e non mi resta molto da vivere, ma cosa dobbiamo aspettarci per questi ragazzi?”. Alla domanda non sapevo dare una risposta, anche perché questo Novecento era anche per me pieno di incognite e misteri: da una parte vedevo il progresso ed il benessere per tutti, ma dall’altro percepivo i pericoli dei cambiamenti e l’utilizzo che la cattiveria umana poteva fare delle nuove invenzioni. La mia esperienza mi suggeriva di rispondere che l’animo umano è imprevedibile soprattutto nella sua crudeltà e cattiveria, ma davanti allo spettacolo di un uomo stanco e vecchio, preferii tranquillizzarlo e dissi “Antonio, vedrai che saranno cento anni meravigliosi. Ci sarà tanto progresso e benessere per tutti”. Mentre parlavo, vidi il suo volto rasserenarsi, ma dentro di me cresceva l’inquietudine per ciò che l’uomo poteva commettere verso i propri simili e, così, incrociando lo sguardo di San Francesco, affidai a lui la mia preghiera affinché in questo nuovo secolo ci fosse sempre la pace. Ormai era quasi mezzogiorno ed arrivava il turno dei grandi santi di Sora. Passarono nell’ordine San Rocco, Sant’Antonio di Padova, San Vincenzo Ferreri, San Domenico Abate. La folla cantava, pregava, invocava in uno spettacolo unico. Ma non era ancora finita, infatti era il turno dei patroni della nostra Città. Per primo passò San Cirillo, unico martire nato a Sora e morto proprio nella sua città per aver ospitato Santa Restituta e aver testimoniato con Lei la fede in Dio. Poi fu il turno di Sant’Emidio: da pochi anni il santo era stato nominato patrono della città per proteggerla dai terremoti. Guardai Antonio e non fu necessario parlarci perché senza dirci nulla capimmo che stavamo pensando alla medesima cosa: Sant’Emidio allontana da questa città così fragile il flagello del terremoto. Vidi Antonio fare una smorfia di dolore e sedersi sulla sedia. Prima che io potessi parlare, mi tranquillizzò con un sorriso e mi indicò di guardare verso la processione. Passò la statua di San Giuliano, martirizzato qui a Sora e venerato in tutto il territorio dell’ex Regno di Napoli. Antonio si inginocchiò a fatica pur di rendere omaggio al santo della sua confraternita e del suo quartiere. Rivolsi lo sguardo verso la strada e apprezzai la lunga fila del capitolo di Santa Restituta che in pompa magna precedeva la statua della nostra patrona. Santa Restituta era seguita da molta gente; la statua trasmetteva un senso di leggerezza e di bellezza con il gesto della santa che guarda in alto e con la mano sinistra rivolta al cielo,mentre con l’altra tiene la palma. L’adorazione del popolo è smisurata quasi che ancora oggi i sorani vogliono compensare con il loro amore il male fatto a quella bella e giovane donna venuta da Roma ad annunziare la lieta novella. Il seme di quell’annuncio, innaffiato dal sangue del martirio, ha creato in questa città una fede forte e una devozione straordinaria verso quella giovane romana. Antonio si inginocchiò e lo vidi in difficoltà nel rialzarsi; lo sollevai mettendogli una mano sotto il braccio. La sua temperatura era molto alta ed il suo colorito non faceva presagire nulla di buono. Feci per portarlo dentro la bottega, al riparo del sole, ma lui con un gesto fermo si oppose e mi disse. “Adesso arriva la Madonna Ranna. Abbiamo aspettato tanto per questo, fammela vedere.” Così lo feci sedere, mentre girava l’angolo la maestosa statua in legno della Madonna di Valfrancesca: le dimensioni della statua, con il relativo trono, erano davvero impressionanti e si meritava appieno l’appellativo di “Ranna”, Grande in italiano. Tutti si inginocchiavano e pregavano al passaggio della Madonna: era Lei la vera protagonista della processione. A Lei i sorani si rivolgevano da sempre per richiedere grazie e favori per la città: più di ogni altra cosa veniva invocata contro la siccità e veniva portata a visitare i campi sofferenti per l’arsura. Quasi sempre alla fine delle processioni il cielo veniva convinto dalla sua intercessione e riversava l‘attesa pioggia. Così la Madonna era la vera regina della nostra Città. Mentre pensavo questo, vidi Antonio che si accasciava sulla sedia e capii che ormai c’era poco da fare. Mi rivolsi a lui chiamandolo con tono preoccupato. Lui, quasi sussurrando, mi disse: ”Se questo è il mio momento, sono veramente felice che succeda oggi. In questa vita io non ho avuto moglie né figli: ho avuto solo questo negozio affacciato sul fiume. La mia forza è stata l’amore che questa città mi ha dato ed oggi tutti i miei amici sono sfilati davanti a me e mi hanno salutato. Oggi sono stato in paradiso sulla terra: ho visto tutti i Santi che mi sono venuti a prendere ed ora spero che la Madonna mi porti con sé.” Spirando, il suo volto acquistò una serenità ed una luce rare. Antonio aveva scelto il finale migliore: in un caldo martedì di giugno, all’inizio di un nuovo secolo, nel suo rifugio in riva al Liri se ne era andato, accolto da tutti i santi ed accompagnato dai suoi amici. A noi lasciava l’angoscia di tutto quello che sarebbe successo.
Inquadramento storico
Il racconto “5 giugno 1900” è ambientato a Sora e prende spunto dalla processione della “Madonna Ranna“, tenutasi il Martedì di Pentecoste del 1900.
I personaggi sono di fantasia: il ramaio è stato ispirato da Antonio Alviani, un anziano artigiano del rame di Sora ancora vivente, che è stato intervistato nella sua bottega di Lungoliri, dove è stata ambientata anche la storia. L’altro personaggio è un medico condotto, Gnore Cè Signor Cesare, liberamente ispirato al dott. Giuseppe della Monica, noto a tutti come Gnore Peppe. La Processione di tutti i santi, conosciuta anche come “processione della Madonna Ranna“, è stata celebrata con regolarità il Martedì di Pentecoste dal 1856 fino al 19611: la tradizione popolare tramanda che la celebrazione sia stata voluta dal popolo sorano per ringraziare la Madonna e tutti i santi per aver salvato Sora dall’ epidemia di colera che aveva decimato l’Italia ed il Mezzogiorno in particolare.
La specificità di questa tradizione religiosa consiste nel fatto che venivano fatte sfilare le statue di tutte le Chiese di Sora: nel massimo dello splendore hanno partecipato oltre cinquanta statue. Di conseguenza, per appartenenza parrocchiale e per devozione, alla processione partecipavano moltissimi fedeli e quasi tutta la città.
La Processione si inquadra in una tradizione per lo più meridionale. La settimana successiva alla Pentecoste era dedicata a rituali di ringraziamento per un pericolo scampato: è il caso della festa in onore di San Calogero a Sciacca, celebrata ancora oggi nel martedì di Pentecoste per ricordare il miracolo del 1578, l’avvenuta liberazione dal terremoto.
Più diffuse erano le celebrazioni per il culto mariano nella giornata di martedì di Pentecoste.Ancora oggi se ne conservano alcune mirabili, come la processione della Madonna del’Altomare di Adria oppure la processione mariana di Cimigliano in Calabria2 ovvero la Festa della Madonna dell’Odigitria, patrona della Sicilia a Vizzini (Palermo) il martedì seguente alla domenica di Pentecoste con processione della statua della Madonna e ricchi fuochi d’artificio. A Massaquano (provincia di Napoli) il martedì di Pentecoste si svolge la plurisecolare Festa della Madonna: al rientro la processione si conclude con la copiosa pioggia di petali di rose ed è obbligatorio avere sulla tavola a pranzo la pastiera, dolce pasquale, proprio perché la Pentecoste è detta Pasqua rosata.
La festa della Maonna Ranna si inserisce in questa tradizione.
Notizie sulla storia della Statua della Madonna di Valfrancesca (Ranna) sono state prese da G. Squilla Valfrancesca e la sua Chiesa nel terzo centenario –Villa Santa Lucia 1979 Per la processione si è fatto riferimento a Piacentini D., Cancelli F. La processione di tutti i Santi in “Vita Sorana” XXI,1993, in Del Vecchio D., La procesione dei Santi nella Sagrestia di S. Silvestro papa, in “Vita Sorana anno XIII, 1981 e in Alonzi A.G., Beranger E.M. il Santuario diocesano della Madonna della Figura nella Selva di Sora – Casamari 2002, pag 73.
La descrizione più bella della processione si trova in V. Paniccia, LA processione di tutti i Santi in “Vita Sorana”, anno XV, 1984.
1 L. Meglio, R. Rea, Il culto della Madonna e dei Santi nella città di Sora – Sora 2012
2 riportata nel testo di L.M. Lombardi Satriani, Madonne, pellegrini e Santi – itinerari antroologico-religiosi nella Calabria di fine millennio – Gli argonauti 2014