Uno studio (vedi articolo) recentemente apparso sulla rivista Phisical Review Letters ha riacceso il dibattito in seno alla comunità scientifica. Gli autori (Niayesh Afshordi, Claudio Corianò, Luigi Delle Rose, Elizabeth Gould e Kostas Skenderis) affermano di aver trovato buone prove sperimentali per il modello cosmologico olografico. I rilevamenti effettuati sulla radiazione cosmica di fondo mostrerebbero un accordo eccellente con questo modello alternativo, competitivo con il modello standard e, forse, anche migliore.
La teoria olografica nasce in tempi relativamente recenti in collegamento con la meccanica quantistica. L’ologramma è una tecnologia già esistente, anche se nelle sue prime fasi di sviluppo, che consente di riprodurre un oggetto tridimensionale su una lastra fotografica bidimensionale senza perderne informazioni consistenti. In altre parole, mentre una fotografia mostra solo una faccia di un oggetto tridimensionale, proiettandolo su due dimensioni, un ologramma lo mostra nella sua interezza su un supporto con una dimensione in meno. Un paradosso?
Sì, se l’ologramma fosse una semplice proiezione geometrica: non è possibile far “scendere di dimensioni” uno spazio senza introdurre un’indeterminazione sulla dimensione eliminata. Ad esempio, l’equazione che rappresenta una retta su un piano rappresenta un piano, cioè infinite rette, nello spazio tridimensionale. Non è possibile eliminare equazioni e mantenere la rappresentazione per tutte le variabili per il semplice dato, noto ai matematici, secondo cui tutte le basi di uno spazio vettoriale contengono lo stesso numero di vettori linearmente indipendenti.
Eppure, l’ologramma è una realtà. Questo perché non si tratta di una proiezione geometrica, ma di una figura di interferenza, un oggetto che ha acquistato senso solo con la nascita della fisica quantistica. La doppia natura onda-particella dei corpi è sfruttata, nella tecnologia olografica, per ritrarre oggetti tridimensionali. Il procedimento consiste nel separare un fascio laser (luce monocromatica non diffratta) in due fasci polarizzati. i due fasci, tramite degli specchi, vengono diretti da angolazioni diverse sullo stesso oggetto. Incontrandolo, creano figure di interferenza che si sovrappongono, generando un’unica figura che viene quindi fissata su una lastra fotografica.
L’immagine così ottenuta non somiglia neanche lontanamente all’oggetto ritratto, ma ne contiene tutte le informazioni. Non solo: le conserva molto meglio in caso di “tagli”. Se una normale fotografia, tagliata nel mezzo, perde metà dell’informazione, un ologramma dimezzato ne perde solo una parte minima. L’interferenza e la diversa polarizzazione dei due raggi permettono di costruire una rappresentazione in cui ogni parte contiene una porzione notevole dell’informazione totale.
Un universo che, nonostante ci appaia tridimensionale, è contenuto interamente in un ologramma a due dimensioni sembrerebbe un’idea insulsa e inutile. Sarebbe puro formalismo, un semplice diletto bourbakista, rappresentare lo spazio in un modo simile invece che secondo il più intuitivo modello tradizionale, se non ci fossero particolari vantaggi nel farlo.
Ovviamente, uno di questi vantaggi è un ottimo accordo con i dati sperimentali, ma le implicazioni potrebbero non finire qui. C’è chi ipotizza una soluzione al problema della correlazione quantistica, uno dei fenomeni più strani sotto i riflettori della fisica moderna.
La correlazione quantistica è un legame misterioso tra due particelle, che si stabilisce una volta che esse entrano in contatto e rimane anche dopo che si sono allontanate a distanze enormi: il risultato è che le due particelle si comportano in modo simile e determinate azioni su una si riflettono sull’altra, senza alcuna apparente connessione tra le due. Questo “legame mistico” (che, proprio per la sua natura che sfida il senso comune, è stato spesso assunto a paragone per le relazioni umane e l’amore) potrebbe trovare una spiegazione banale se le due particelle correlate fossero, in realtà, lo stesso oggetto. Non in questo spazio, però, in cui magari distano anche milioni di chilometri: nello spazio vero, ovvero il modello olografico, che non somiglia affatto allo spazio tridimensionale a cui siamo abituati e in cui oggetti per noi distinti possono essere in realtà identici.
Molti sono gli orizzonti che potrebbe offrirci una rivalutazione del modello olografico. Secondo molti fisici, la prova è nello straordinario accordo delle previsioni olografiche con i dati sperimentali. Eppure, come spesso accade in fisica, è un’altra soluzione quella che dobbiamo cercare: la teoria olografica, ammette il team autore della ricerca, sebbene dia un migliore accordo con i dati quando la teoria dei campi quantistici diventa non perturbativa (cioè risulta più difficile fare calcoli per approssimazione), è ancora seconda alla vecchia ΛCDM (modello standard) in senso globale. La verità è ancora altrove, in un modello migliore che riunisca i vantaggi di entrambi: la prossima sfida per il futuro.
Davide Ferri