Ci sono dischi che difficilmente si riesce a descrivere senza tirare in ballo sé stessi. Il fatto che un disco sappia scuotere emotivamente, ed il fatto che il cuore e le sensazioni rispondano alla musica in qualche modo è sicuramente uno dei tanti fattori che contribuiscono a delineare il proprio apprezzamento, a cui magari col tempo si aggiunge un certo spirito critico.
Certe volte però, ed accade abbastanza di rado, l’emozione ed il cuore tornano a rispondere in maniera più vivida che mai e quasi totalitaria, e questo è il caso di “Live at Raji’s” dei The Dream Syndicate, gruppo assolutamente ed ingiustamente sottovalutato che ha però saputo non solo rappresentare un genere, ovvero il Paisley Underground, movimento musicale iniziato a Los Angeles all’inizio degli anni ’80 che si riproponeva di riportare il sound degli anni ’60 a delle strutture più moderne (di cui sono sicuramente i maggiori esponenti), ma anche tutto il revival psichedelico attuato dalla Neo-Psichedelia, ed in particolar modo dai The Soft Boys. Tuttavia, i The Dream Syndicate non basavano il loro stile soltanto sul miscuglio di Jangle-Pop e Post-Punk tipico anche di questi ultimi, ma aggiunsero ad essi la jam improvvisata, i feedback, mantenendo quella secchezza tipica del punk innalzandola non principalmente a livello strutturale (come nel caso dei The Soft Boys o dei Teardrops Explodes) quanto a livello sonoro. Ed in questo senso devono molto ai Television, che restano tra i loro massimi ispiratori, da cui riprendono soprattutto le strutture musicali, fatta di solidità ritmica e di un eccelso lavoro di intrecci di chitarre, che a volte vira sull’improvvisazione, nonostante i The Dream Syndicate lavorino molto di più su un contrasto molto più sensibile tra la chitarra ritmica melodica di Steve Wynn ed i feedback abrasivi di Karl Precoda e su un canto molto più alla Lou Reed.
Dopo aver rilasciato due dei massimi capolavori del Paisley Underground, “The Days of Wine and Roses” e “Medicine Show”, i The Dream Syndicate cercarono di razzolare in un sound più radio-friendly con i due dischi successivi, che per quanto discreti potessero essere, non rendevano giustizia a quelle due pietre miliari degli anni ’80. In “Live at Raji’s” ritroviamo la loro ultima formazione impegnata in quello che sarà destinato a rimanere negli annali della musica come uno dei dischi live più intensi della storia. Affermazione parecchio rischiosa da parte mia, lo riconosco, ma perchè è soprattutto il mio cuore a parlare per me. Ma cercherò di concentrare ciò che sento per potervi spiegare al meglio cosa c’è in questo disco.
Anzitutto, ciò che si percepisce fin dall’inizio è la solidità della formazione. I membri sono affiatatissimi, e svolgono un ottimo lavoro sul palco, dimostrando il giusto virtuosismo ma mettendo sempre foga e sensazione in tutto ciò che fanno. Il gruppo non solo mette in mostra il suo stato di grazia, nonostante fosse prossimo allo scioglimento, ma lo fa anche in maniera più che dignitosa, un misto incredibilmente seducente di intrattenimento e guitar jam guidate dal semplice istinto, cosa che tende quindi a diversificare quasi ogni brano dalla sua controparte in studio. I The Dream Syndicate non si limitano a prendere i loro brani migliori ed a dilatarli o ad aggiungervi variazioni o un maggior spazio dato all’improvvisazione, ma riescono persino ad offrire una loro versione di “All Along the Watchtower” di Bob Dylan, che riesce a non assomigliare a quella di Jimi Hendrix e neanche a quella di Dylan, dimostrando come l’assorbimento di quest’ultimo fosse più poetico e concettuale che sonoro, riaffermando la loro identità, ma riescono persino a prendere alcuni loro pezzi relativamente modesti, come “Forest for the Trees” e, soprattutto, “Boston”, ed a trasformarli completamente, facendone degli inni. In particolare questa versione di “Boston” è uno dei brani più potenti della loro carriera, carico del solito iper-realismo derivato dai maestri The Velvet Underground ma anche di un particolare mood teso tra il nostalgico e il fatalista (Come back to Boston or I’ll meet you halfway/somewhere by the middle of the interstate/we can take it on down to some cold, deserted lake/and come back to Boston before we make the same mistake), nella solita vena di Wynn.
Eccezion fatta per questi due brani, quindi, il disco si presenta come un live di “Greatest Hits” che mantiene costante il livello di tensione e di potenza per tutta la sua durata. Un tour de force della chitarra ma una serie di affreschi pregni di realismo e di atmosfere a metà tra il decadentismo e il dramma giovanile. In queste esecuzioni coesistono come non mai sia lo spirito poetico ed atmosferico di Wynn che quello lancinante e chitarristico di Precoda, e quest’ultimo ci conduce alla vera sorpresa di questo live: Paul B. Cutler. Chitarrista subentrato nel gruppo in seguito alla dipartita di Precoda, si ritrova generalmente sottostimato a causa di un’apparente mancanza di quel suono acido e spigoloso che aveva dato gloria al suo predecessore (che rimane tra i migliori chitarristi dell’epoca e non solo). In realtà ciò era dovuto più al fatto che ormai Wynn fosse il totale detentore dei diritti di song-writing, col risultato di convergere tutto il suo spirito in una forma canzone canonica ed ancorata al melodismo, che quindi non aveva reso giustizia al reale talento di Cutler, che qui splende come non mai. Su una sezione ritmica ben salda, con batteria e basso relativamente semplici ma incredibilmente incisivi e potenti, quest’uomo da prova di un’abilità negli assoli che non fa per niente rimpiangere Precoda (basti pensare alle sferragliate di “That’s What You Always Say”, che diventa molto più tesa ed intensa rispetto alla corrispondente in studio, o ai toni più aspri di “Until Lately”).
Ma, come ho già detto, in questo album chiunque, persino il pubblico, trasmette qualcosa di incredibilmente potente. Wynn da prova del suo carisma come frontman e del suo canto tossico, al limite del parlato maledetto di Lou Reed, Walton e Duck costruiscono una sezione ritmica eccellente per un eccellente lavoro di chitarre di Cutler e dello stesso Wynn. Perchè qui c’è un concentrato di esplosività che ha ben pochi eguali, ma anche un eccellente e calibrato lavoro di rivisitazione. “The Days of Wine and Roses” è più furiosa che mai, sostenuta da ritmiche veloci e dalla miglior interpretazione vocale di Wynn (a parere di chi scrive), “Merrittville” è invece una ballad psichedelica, più lenta e riflessiva, “The Medicine Show” zittisce man mano le sue ritmiche simil-blues rock per poi esplodere nel caos, “Burn” è forse la prova più melodica del disco, mentre i restanti pezzi (“Still Holding On to You”, “Halloween” e “Tell Me When It’s Over”) non godono nè più nè meno che dei (grandi) meriti delle loro versioni in studio, vantando però di molta più crudezza ed incisività. E poi si arriva a “John Coltrane Stereo Blues”, il capolavoro nel capolavoro. Questa è pura follia, è pura furia. Il brano che meglio racchiude il loro spirito dal vivo, che spinge in questo caso verso la jam pura, dove la melodia ormai è sovrastata da un susseguirsi di attacchi epilettici, con chitarre al massimo del loro splendore ed annoverabili come tra le migliori della storia della musica, alle quali si aggiunge anche Peter Case con la sua armonica.
Ciò che avvenne quella notte al Raji’s lo possono dire soltanto gli spettatori di quel concerto. Tutto ciò che a noi resta è un vero e proprio testamento spirituale di un gruppo che nonostante tutto non gode ancora del rispetto che meriterebbe. Il consorzio del sogno ha dato una nuova linfa vitale alla chitarra, che in seguito avrebbe influenzato buona parte dell’alternative-rock, e questo almeno deve essergli riconosciuto.
Un disco che dimostra la profonda sincerità di una carriera intensa e limitata da una visibilità che non ha mai reso giustizia all’operato di Wynn e co.
Grazie The Dream Syndicate, grazie di tutto.
Raffaele Perruzza