L’iniziativa di aprire dei corridoi umanitari che colleghino il Medio Oriente e l’Africa all’Italia risponde al bisogno di evitare altro spargimento di sangue nel Mediterraneo e di lottare contro la tratta di essere umani.
Secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, dall’inizio dell’emergenza migratoria il 2016 è stato l’anno con il più elevato numero di profughi che hanno perso la vita nel Mediterraneo. La stima è di 5.098 morti, di gran lunga superiore a quella dell’anno precedente in cui si contavano 2.900 vittime tra i migranti costretti a fuggire da guerre e situazioni di instabilità nel loro paese di origine o di residenza.
Tra i fatti e gli episodi più drammatici avvenuti negli ultimi anni, che testimoniano la pericolosità di una via che è diventata la più rischiosa al mondo tra le rotte globali percorse dai migranti forzati, si ricordano: il naufragio al largo delle coste di Lampedusa il 13 ottobre 2013 che aveva causato 366 morti accertati, la strage al largo del Libano avvenuta il 18 aprile 2015 in cui persero la vita 800 persone e la storia del piccolo Aylan che conosciamo tutti.
Non solo. A questi dati bisogna aggiungere il fatto che i profughi, nel tentativo di allontanarsi dal loro paese e arrivare in Europa, sono costretti ad affidarsi a malviventi che impongono loro i costi e le condizioni del viaggio traendone enormi profitti.
Il sistema di protezione dell’Unione Europa, tuttavia, si basa sul principio per cui è possibile fare domanda di asilo politico solo una volta messo piede sul suolo europeo. Questa concezione territoriale è uscita riconfermata dalle decisioni più recenti prese dalle autorità dell’Unione, nonostante la promessa di un impegno concreto volto a permettere a chi abbia diritto alla protezione internazionale di accedere in sicurezza al territorio europeo.
E’ da questo stato di cose che scaturisce la proposta, che è già diventata un’iniziativa, come spiegherò a breve, di utilizzare dei corridoi umanitari per prelevare quanti siano meritevoli di accedere al diritto di asilo prima che possano imbarcarsi, così da portarli nel paese di asilo.
Si discute molto sull’efficacia dei corridoi umanitari, ma essi rappresentano già una realtà, seppur timida e in via di sperimentazione, che vede soggetti religiosi e laici italiani come i primi e gli unici ad effettuarli.
L’iniziativa è partita da una collaborazione ecumenica tra la Comunità di S. Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese e si è concretizzata attraverso la stipula di un Protocollo d’Intesa con il governo italiano sul finire del 2015.
Il fondamento giuridico su cui si regge l’operazione consiste nella possibilità, prevista dal diritto dell’Unione Europea, di concedere visti per ragioni umanitarie e validità territoriale limitata.
Il progetto si propone di far arrivare in Italia 1000 richiedenti asilo nell’arco di due anni, scelti tra quanti soddisfino i requisiti per ottenere lo status di rifugiato e si trovino in condizione di particolare vulnerabilità. Le aree geografiche individuate corrispondono ad importanti paesi di transito e sono il Libano, il Marocco e l’Etiopia. I costi dell’intervento sono completamente a carico dei soggetti proponenti e coprono la fase di accompagnamento alla partenza, il viaggio in Italia, l’accoglienza e la prima integrazione. In quest’ultimo passo, per aiutare gli arrivati a inserirsi nella società, gli viene insegnato l’italiano e vengono iscritti i bambini a scuola.
Finora sono arrivate quasi 800 persone, prevalentemente profughi in fuga dal conflitto siriano, e già si prevede di riconfermare il progetto allargandolo ad altri soggetti, quando altri paesi hanno manifestato il loro interesse e la Francia ha già adottato una procedura analoga.
Il dibattito sui corridoi umanitari riguarda soprattutto quei tipi di interventi che sono stati realizzati all’interno di un paese in guerra tramite la creazione di un area in cui le attività belliche fossero temporaneamente sospese, permettendo in tal modo l’ingresso degli aiuti ai civili e la loro fuga.
Questa soluzione è stata criticata per la sua valenza geografica e temporale limitata, per l’esigenza di una robusta protezione militare, per il rischio di un intensificarsi degli scontri in altre zone in cui i civili non siano protetti, nonché per l’ostacolo dell’autorizzazione a attuarla che deve essere concessa da parte dei paesi belligeranti. Ostacolo, quest’ultimo, superabile solo tramite una risoluzione vincolante del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Tali criticità, a mio parere, non sono riscontrabili allo stesso modo nel caso del progetto italiano, diverso per natura a quello del corridoio umanitario sopra descritto.
I profughi si trovano già in zone relativamente più sicure, generalmente territori limitrofi in cui si sono portati dopo la fuga e nei quali non è in corso alcun conflitto. Di conseguenza non è richiesta alcuna particolare autorizzazione da parte dello stato che ospita i fuggitivi, così come non è richiesto lo stesso schieramento di forze armate capaci di garantire l’incolumità dei civili e degli operatori umanitari durante le operazioni di soccorso e di trasferimento.
Tra gli inconvenienti, però, c’è probabilmente quello di vedere le parti in guerra sentirsi autorizzate a intensificare i combattimenti all’interno del paese, dove sono rimasti ancora dei civili. A questo proposito è necessario che l’esperimento italiano, se vuole tradursi in una storia di successo, come già i primi segnali lascerebbero intravedere, deve essere continuamente monitorato.
I corridoi umanitari non vogliono certo essere la panacea di tutti i mali. Il fenomeno del massiccio spostamento demografico a cui stiamo assistendo è estremamente complesso e pone più d’una questione (recupero e soccorso in mare, riconoscimento, smistamento, integrazione, clandestinità, ecc.), ma tra queste ce n’è sicuramente una macroscopica che vede centinaia di migliaia di uomini tentare la fortuna in una traversata della speranza/disperazione.
Giosuè Cersosimo
(Ex alunno del liceo, collaboratore esterno del giornale)